00 12/09/2021 22:54
Un saluto a tutti.

Roma, 9 novembre 2003, derby in notturna.
Nell’anniversario della caduta del Muro, Trefoloni da Siena ne infrange un altro codificando un modo di arbitrare: che consiste nel condizionare la partita in maniera metodica, scientifica e premeditata, ma senza esporsi con singoli episodi da moviola.
Fischia sistematicamente fallo a Corradi, sul quale si appoggia con poche alternative la manovra della rabberciata formazione biancoceleste; fischia sistematicamente punizioni dal limite per quegli altri, aumentando le probabilità di creare situazioni pericolose.
E su uno di quei piazzati arriva effettivamente il gol di Amantino Mancini, solo omonimo del vero Tacco d’Oro di Parma-Lazio.
Per quel modus operandi arbitrale, da ultimo stadio della malafede, la gara in questione diventa l’esempio per antonomasia, il caso che fa scuola.

Difficile non ripensare a quella vergognosa serata di sport assistendo alla direzione di Schiffi, già protagonista nella “maial Verona” con l’annullamento del gol di Caicedo.
Più greve e incapace del collega senese, dà maggiormente nell’occhio ma puntando tutto sui falli: con licenza di uccidere per i rossoneri e puntualissime sanzioni – a costo di inventarle – a carico degli ospiti, con l’immancabile aggiunta di qualche cartellino giallo killer.
Dove la fa un tantino fuori dal vaso, rischiando che qualcuno corra a rivederseli, è su un paio di episodi.
Il rigore, innanzitutto, con Kessié e Immobile che concorrono alla pari su un pallone certo non in possesso del milanista.
Il quale, sbilanciato ed eventualmente colpito sul piede, dovrebbe cadere all’indietro e non come fa sul campo: basterebbe un movimento così poco congruo a chiudere la faccenda con un giallo per simulazione.
Secondo episodio il mancato rosso a Bakayoko, che si spiega solo con la volontà di indirizzare la gara non sostenuta dalla diplomazia nel salvare le apparenze.

Si può parlare di calcio a queste condizioni? Purtroppo sì, evitando innanzitutto di nascondersi dietro l’avversario.
Il Milan di Pioli non è altro che una masnada di fabbri ben organizzati tatticamente e con una condizione sospetta, o forse mal programmata, a questo punto della stagione.
Nulla più di un Chievo d’antan, con un livello qualitativo oltraggioso per la Storia del club.
Il problema è che la Lazio, a un pacchetto di mischia e alla sua capacità di distruggere, oppone una prestazione neppure negativa, proprio sbagliata nei concetti di fondo.
La squadra che ha vendemmiato contro Empoli e Spezia è bellissima quanto difficile da riproporre in tutte le situazioni, a causa di una fisicità da campionato spagnolo nella parte destra della classifica.
Provarci dal primo minuto, rimanendo sé stessi al cospetto di un esame di laurea come San Siro, poteva rientrare nel percorso di crescita sul piano della consapevolezza e della personalità.
Doveva, però, bastare il primo scorcio di gara per capire che quell’assetto non reggeva l’impatto delle esigenze di giornata.
Sarri ha invece atteso un’ora abbondante prima di mettervi mano, e solo per sostituire due elementi – peraltro scelti in maniera assai dubbia, nel caso di un Felipe Anderson che stava appena entrando in partita – con altri se possibile ancora più leggeri.
Colpa dell’uomo e non del sistema, mentre era proprio quest’ultimo da mettere in discussione: con un uomo in più in mediana, al posto o di un Luis Alberto da multare per l’atteggiamento o di un Pedro determinato quanto sorpassato a destra dal ritmo del match.
Risultato, una squadra sempre seconda sul pallone; annullata nel gioco sulle fasce e nelle triangolazioni strette al centro; disarmata nelle proprie risorse offensive, fino all’assurdo delle zero situazioni pericolose create nei novanta minuti.

Tardive le altre mosse, compreso l’esordio di Bašić.
Una vicenda cominciata male quella del croato, che ha perso preziose settimane di lavoro coi nuovi compagni causa indice di liquidità, e quindi è ancora impegnato nelle presentazioni.
Ma più di tutto ha impressionato negativamente il suo passo, che ricorda quello di un Luboš Kubík: bel piede, ma estraneo al campionato italiano sul piano dinamico.
A maggior ragione in un ruolo decentrato, nel quale Sarri sembra deciso a inquadrarlo, dove un minimo di progressione sul breve appare irrinunciabile.
Si spera dipenda dalla combinazione tra un fisico che entra in forma lentamente e le già citate tempistiche del suo inserimento.

Quanto alle responsabilità dei singoli, si è detto dell’approccio indecente di Luis Alberto, mentre il fatto che Leiva non sia più un giocatore in attività rimane evidente a tutti tranne che a chi decide.
Deludentissimi i due esterni difensivi, che pure contavano su chili e centimetri non disponibili nella zona nevralgica del campo.
Ancora peggio Acerbi, in merito al quale perdura un equivoco: che si tratti non di un buon marcatore bensì di un dominante, quando è chiaro da anni il suo contributo sottozero all’organizzazione del reparto.
Sul primo gol c’era la possibilità di mettere in offside Brahim Díaz o di giocarsela uno contro uno, mentre i movimenti scoordinati a difendere zone troppo ampie hanno solo disegnato gli spazi per un uno-due irridente.
Sul secondo, oltre a non indirizzare compagni che si muovevano in ordine sparso, ha perso completamente Ibra.
Lasciandosi prendere alle spalle con un’ingenuità inammissibile, anche a livelli minimi.
E confermando l’assenza di una visione strategica d‘insieme quando non si fronteggia la manovra avversaria a difesa schierata.
Lacuna che, sommata alle carenze in interdizione, alle distanze fra i reparti tutte da inventare e alle alternative nel ruolo, trasforma quello fra i centrali difensivi e il mediano in un Triangolo delle Bermude.

La sommatoria delle prime tre giornate sembra abbastanza intuibile.
Con Empoli e Spezia si sono intuite le prospettive di una stagione e di una guida tecnica per molti versi assai promettenti.
Col Milan si è colta la lunghezza e la tortuosità della strada da percorrere.
A maggior ragione dopo un decennio abbondante di comfort zone, con le scorie e le cattive abitudini che ha sedimentato.
A maggior ragione se il responsabile dei buchi in organico di cui sopra rimane ineffabilmente al proprio posto.