00 27/01/2020 04:11
C’è un termine di confronto per la prestazione odierna della Lazio: quella della xxxx il 26 maggio, vale a dire la peggiore da anni a questa parte e nella circostanza meno indicata.
Le conseguenze dovrebbero rivelarsi assai più transeunti: ma rimane la realtà di novanta minuti brutti come un “numero zero” del prossimo Festival di Sanremo, nei quali non ha funzionato praticamente nulla.

Il dato più evidente, e attorno al quale ruota lo sviluppo della gara, è una condizione atletica evaporata da un incontro all’altro.
Pur nel contesto di una sconfitta evitabile, la Lazio del San Paolo aveva chiuso ancora una volta in crescendo, lanciando un vero e proprio assedio e confermando una condizione fisica brillante come non mai.
La squadra scesa in campo alle 18 di ieri sera – ma verrebbe da dire alle 18.01, per come ha giocato perennemente in differita rispetto all’avversario – è apparsa involuta, paralizzata da un sortilegio, eterna seconda sul pallone.
Si veda l’andamento della ripresa, con qualche timida sortita cui hanno fatto seguito il pressing accentuato dai più frizzanti avversari e venti minuti finali da incubo, inchiodati nella propria trequarti.

A cascata ne ha risentito la tattica, saltata insieme a un parametro fondamentale: le distanze.
Fra giocatori dello stesso reparto, fra i reparti, nella catena sulle due fasce: col risultato di alternare compagni che si pestavano i piedi a zone troppo vaste di campo abbandonate al pascolo.
Altra chiave di lettura, che si interseca coerentemente con le precedenti, è la teoria di sconcertanti esibizioni individuali fra le quali si è salvata – e non solo per il gol – quella di un Acerbi costretto a giocare e chiudere per due o tre.

Il resto è un pianto, a cominciare da Strakosha; il quale, a furia di sentirsi rimproverare la scarsa propensione alle uscite, se n’è inventata una farneticante ammosciandosi sulla schiena di Džeko come un autista ubriaco fradicio contro un cassonetto.
Né ha proposto di meglio appena prima della respinta sulla conclusione ravvicinata del bosniaco – che poi gli ha tirato sul naso, a essere precisi – creandone le premesse con una smanacciata doppiamente indifendibile.
Perché la presa, stanti la zona di campo e la traiettoria del pallone, era dovuta; per il vizio, da cui non riesce a liberarsi, di respingere lasciando che il pallone ristagni nella zona caldissima sottoporta, anziché allontanarlo il più possibile.
A centrocampo, un coro assordante di assenti e stonati ha regalato la mediana agli avversari con percentuali nei passaggi azzeccati che sarebbero risultate indecorose nel tiro da tre a basket (una prece per Kobe Bryant, a proposito di canestri).
Lucas Leiva, in versione nonno di sé stesso, ha lasciato liberi gli uomini di Fonseca di giostrare e smistare sul perimetro.
Milinković-Savić ha marcato visita con la testa e di riflesso col corpo, confermandosi impalpabile persino sulle palle alte.
Luis Alberto ha concesso gli unici segnali di vita, ma con una parsimonia da barzelletta sui genovesi e abdicando al contributo “operaio” che ne aveva sostanziato l’apporto alla manovra.

Discorso a parte merita l’uomo simbolo di queste partite, vale a dire “sempre sia lodato” Lulić.
Se un paio di diagonali a Napoli avevano evidenziato la difficoltà nel sostituirlo, i novanta minuti di martirio – con cui ha consacrato il Pallone d’Oro virtuale Ünder come migliore dei suoi – confermano l’imminenza del doloroso passaggio di consegne.
Sue, va detto, le poche iniziative in avanti nella fase centrale del match, ma rimane l’impossibilità di difendere andando a piedi contro chi sfreccia su una pur scassata utilitaria.
A metterlo sulla graticola ha contribuito anche la confusione tattica d’insieme, che ha delegato ai suoi noti piedi palloni in serie da ripulire in zone assai delicate del campo: mansione, gli va riconosciuto, svolta senza conseguenze irreparabili.

Confusione che chiama in causa anche Inzaghi e la rinuncia a Luis Alberto, con cui ha azzerato la già remota probabilità di collezionare due passaggi di fila, a favore di un Milinković-Savić ammonito, fieramente fra i peggiori in campo e più volte a rischio secondo giallo.
Poi la palla è rotonda ed è toccato proprio al serbo provocare l’unico brivido nel finale a Pau Lopez, ma nell’economia della gara quella del tecnico rimane una scelta incomprensibile.

E si arriva così, a mo’ di ciliegina su una torta già di per sé avariata e indigesta, al vero convitato di pietra di troppe stracittadine delle ultime stagioni: l’approccio mentale.
Materia sulla quale facevano fede, in maniera persino premonitrice, le divise da gioco.
La Lazio ha puntato su quella rievocativa della stagione 1998/’99, un vestito davvero troppo largo, elegante e pretenzioso per quanto “ammirato” sul rettangolo verde.
La xxxx, accantonati i fasti di cartone “porpora e oro”, ha rispolverato tonalità più vicine al logo di Burghy negli anni ‘80.
E Paulo Fonseca, sorprendentemente per un portoghese allenatore di brasiliani, ha proposto per l’appunto un calcio fast food: sbarazzino, pratico, diligentemente costruito su gambe toniche al di là di ogni pronostico e sulle troppe debolezze della controparte.
Buon per gli uomini di Inzaghi se il pressing e il gioco alimentati a ciclo continuo da Pellegrini e compagni si sono risolti – per rimanere alle metafore alimentari di basso livello – in un vinaccio da aperitivo, con più bollicine che qualità.
Un fattore decisivo per l’incapacità di concretizzare e centrare una vittoria che, ottenuta con ampio margine, avrebbe lasciato poco spazio alle recriminazioni.

Una parola su Calvarese, arbitro così completo da dirigere contemporaneamente due discipline diverse: calcio per la Lazio, lotta greco-romana – soprattutto nella marcatura del pur impacciato Correa – per gli altri.
Mazzoleni al VAR ha imposto la permanenza nei limiti della decenza tecnica, sgombrando il cielo dai fantasmi di palloni usciti o falli sul portiere in occasione del pari e domando persino un mostro mitologico come il rigorepaarioma.
Le prossime designazioni diranno in che misura tanto zelo sia stato apprezzato nelle alte sfere.

Bilancio di giornata positivo in rapporto all’ennesima prova da Ufficio Resurrezioni di trigoria, con una rivale per la corsa alla CL tenuta a distanza e la classifica avulsa sterilizzata bissando il punteggio dell’andata.
Impossibile, comunque, scacciare l’amarezza per un undici improvvisamente sparito e un’occasione sprecata: non tanto nell’ottica dell’impronunciabile, dove le battute d’arresto delle prime due consentivano in ogni caso un sogno a occhi ancor più aperti, quanto per la più concreta e immediata possibilità di marchiare a fuoco la loro stagione.
La Lazio poteva spedirli dall’analista, li manda al massimo dal meccanico per un tagliando.
Una prova di maturità fallita in una stagione che, fra San Siro e Juventus, aveva sfatato uno dietro l’altro tabù e blocchi psicologici ormai atavici.
Tranne uno, oltre al derby: il mercato di gennaio. Chi si rifugia nel mantra del “siamo a posto”, anche dopo ieri pomeriggio, sta vedendo più che mai un’altra partita.