Johan Cruijff

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ℬaruch
00domenica 27 marzo 2016 19:24
Qualcuno è in grado di approfondire il discorso su Cruyff? Giocatore che ho imparato ad apprezzare attraverso i filmati ma che ora vedo sotto una luce ancora più interessante grazie a questo parallelismo con Spinoza, evidentemente non solo suo concittadino. Leggendo questi due articoli ho trovato qualche imbeccata interessante sul paragone, ma anche forse qualche suggestione forzata. Cosa è stato Cruyff? Si può veramente definire il "calciatore spinoziano"?


Johan Cruijff, morto lo Spinoza del calcio. Dove tutto era e doveva essere gioia
il Fatto quotidiano
Sosteneva nel diciassettesimo secolo il teologo e filosofo olandese Baruch Spinoza che la sostanza è causa di sé, con la totalità dei suoi attributi. Deve averlo letto e studiato a fondo tre secoli dopo il suo connazionale Johan Cruijff, che dell’etica della gioia applicata al calcio, il totaalvoetbal o calcio totale, è stato il profeta. Nato nell’immediato dopoguerra ad Amsterdam, città attraversata dagli innumerevoli canali che si diramano dal fiume Amstel, il piccolo Cruijff capisce subito che il gioco del calcio è un problema geometrico e di spazio: il pallone va tenuto attaccato ai piedi, i passaggi vanno fatti corti, altrimenti la palla finisce in acqua e non torna più. Rimasto orfano di padre, la madre è assunta come lavandaia nella squadra cittadina dell’Ajax, di modo che il ragazzo possa dedicarsi al pallone. E quando a soli diciannove anni in prima squadra arriva il tecnico Rinus Michels, che del calcio totale è il maggior teorico, scatta la scintilla che incendia la pietra filosofale. Nasce la leggenda di Johan Cruijff, il giocatore spinoziano.

A 14 anni vince il primo titolo giovanile con i lancieri di Amsterdam, e per i due decenni seguenti con il numero 14 incanta le platee mondiali con la maglia dell’Ajax e della nazionale orange. Cruijff cresce nell’Olanda dell’ontzuiling che negli anni Sessanta comincia l’abbattimento dei sacri pilastri in cui era divisa verticalmente la società, in nome di una più dinamica e funzionale coesione sociale. E così è anche il calcio totale che, come scrive Sandro Modeo, “è uno stile di gioco fondato sulla cooperazione e sul pensiero collettivo: uno stile la cui cadenza – basata sull’attenzione al tempo e allo spazio – orienti la squadra a prescindere dall’avversario”. Di questi cambiamenti sociali e calcistici, che precedono e accompagnano il vento di ribellione del maggio 1968, Johan Cruijff è immagine sublime. Dal 1966 al 1973 con l’Ajax vince tutto, comprese tre Coppe dei Campioni, prima di seguire a Barcellona il suo mentore Michels e con lui esportare i semi del totaalvoetbal in Catalunya.

E’ il 19 giugno 1974, al Westfalenstadion di Dortmund si sta giocando la seconda partita valida per il gruppo 3 del Mondiale di Germania 1974. In campo Olanda e Svezia. E’ il 23mo minuto e dopo un lungo possesso palla olandese la sfera finisce sui piedi di Cruijff, vicino alla bandierina del calcio d’angolo, davanti a lui il terzino destro svedese Jan Olsson: Cruijff col destro finge di mandare la palla sulla sinistra del difensore, poi con l’interno del piede si sposta la palla dietro di sé e lo brucia passandolo sulla destra. E’ il tocco Cruijff, il marchio di fabbrica del campione. La partita finirà 0-0 e quel Mondiale l’Olanda lo perderà in finale contro i padroni di casa della Germania Ovest. Ma il numero 14 olandese, già chiamato il Pelé bianco o, come dal titolo di un documentario di qualche anno dopo di Sandro Ciotti “Il Profeta del Gol”, è nella storia. A fine anno vince il suo terzo Pallone d’Oro. Al Mondiale di Argentina 1978, dove l’Olanda ancora perde in finale contro i padroni di casa, Cruijff non c’è: è rimasto a casa per protesta contro la sanguinaria dittatura fascista della Junta Militar di Videla. Il maggio 1968 per lui non è mai finito.

Non finisce nemmeno quando, appese le scarpe al chiodo dopo aver giocato anche con il Levante, il Feyenoord, negli Stati Uniti e un Mundialito con la maglia del Milan, diventa allenatore. La sua idea di calcio è utopica, parafrasando Karl Marx ognuno in campo deve quel che può e ricevere quello di cui ha bisogno. Giocatore totale in campo, lo è anche sulla panchina del Barcellona, con cui vince nuovamente tutto. “Sul campo è importante dare libertà ai giocatori, anche se all’interno di uno schema. Quello che conviene insegnare ai ragazzi è il divertimento, il tocco di palla, la creatività, l’invenzione. La creatività non fa a pugni con la disciplina”. E’ il suo manifesto. In Italia troppo a lungo è stato ricordato come l’allenatore arrogante che alla guida di un Barcellona fortissimo (Koeman, Guardiola, Bakero, Romario e Stoichkov tra gli altri) ha perso 4-0 una finale di Coppa dei Campioni contro il Milan pragmatico e utilitarista di Fabio Capello. Eppure è proprio nell’idea del gioco come utopia, mai schiavo del risultato e della vittoria, di un calcio dove “Alla radice di tutto c’è che i ragazzini si devono divertire a giocare”, che risiede il grande insegnamento del profeta olandese. Un’estetica pura, dove ancora risuona l’eco di Spinoza e di ogni cosa del mondo che è bella in sé, in quanto utile, al di là dei canoni estetici dominanti. Un’estetica che porta alla libertà. A quel campo di calcio immaginato come piano d’immanenza, dove tutto scorre e tutto è pura gioia. Al di là del risultato.

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Cruyff come Spinoza, stessa geometria di pensiero
di Marco Ciriello
Il suo orizzonte ero lo stadio dell’Ajax, ad accompagnarlo il profumo di mele – che vendeva suo padre e prima suo nonno – e lui, Johan Cruyff, portava lo stupore. Ha cambiato squadra, campo, paese, lingua, senza mai perderlo. Questa era la formazione base: luogo, atmosfera, capacità. Pallone, spettacolo e partite gli appartenevano, era un accentratore – che qualche volta dribblava troppo, ma quando poi si liberava del pallone con l’esterno lanciando in porta un compagno, tutti si convincevano dell’importanza dei suoi dribbling e nessuno più fiatava –, solo John McEnroe l’ha bordeggiato in tirannide agonistica. Cruyff era il calciatore senza peso, quello che agiva infischiandosene del contesto, perché ad ogni causa, principio, azione, anteponeva se stesso. E non perché non fosse generoso, no, ma perché sapeva di essere quello che stava cucendo il prima e il dopo del calcio.

Era la differenza, lo scarto, l’innovazione, con la fortuna di appartenere alla migliore generazione calcistica olandese, quella che cambiò il pallone. Cruyff era lo stupore aggiunto alla rivoluzione: il suo corpo, le sue giocate, la sua vita, erano il centro di quel cambiamento, come Parigi per il ’68. Collettore e conduttore, per capire il come e il perché bisogna fare un paragone diverso, spostandoci dal quartiere Betondorp della periferia di Amsterdam – quello di Cruyff – verso il quartiere ebraico, dove troviamo Baruch Spinoza, ad accomunarli la geometria di pensiero e passaggi. Perché se “filosofare è spinozare” come dirà poi Hegel, “giocare a calcio è cruyffare”, oggi più di ieri (vedi Barcellona). Entrambi concilieranno il dualismo mente-corpo, che consentirà a Cruyff di diventare l’unico grande calciatore capace anche di allenare (solo il cuore lo farà smettere, per portarlo a diventare il più giovane patriarca del calcio, con una statua in ogni campo). Ad unirli – stesso modo di giocare e ragionare – ci sarà anche l’assoluta necessità dell’essere che Cruyff riuscirà a imporre persino ai Catalani, e il determinismo radicale che lo porterà al ritiro e poi ad andare negli Usa (con New York Cosmos e Los Angeles Aztecs) prima del tempo (calcistico).

E giocare con entrambi i piedi lo aiuta nella pratica altissima dell’inganno, come spiega bene Jorge Valdano: «correva veloce perché stava per rallentare, rallentava perché era pronto per ripartire velocissimo, fintava il passaggio perché stava per dribblare, iniziava un dribbling perché stava per passare, guardava a sinistra perché preparava una soluzione sulla destra». Cruyff era ovunque a imporsi, stupire, divertire, in una continua trasformazione. In campo era Achab, comandava lui, e lo sapeva anche Rinus Michels – rassegnato al suo maleducato agonismo – padre putativo prima che allenatore all’Ajax e al Barcellona.

Quando lasciò la maglia numero 14 della squadra olandese per andare a vestire quella numero 9 del Barcellona, ad Amsterdam venne considerato un disertore dei sentimenti, in realtà metteva solo in pratica l’animo degli olandesi: andare alla scoperta di nuovi mondi. E lo fece assicurando le sue gambe con i Lloyd’s di Londra prima di quelle di Rihanna o del culo di Jennifer Lopez, perché Cruyff era il calciatore postmoderno, quello che non lo fermavi nemmeno fuori dal campo, dove ragionava come Steve Jobs: sono quello più cool, allora dovete pagarmi il doppio (e prendo anche la percentuale sugli incassi). Anche perché era il dispari del suo tempo. Niente gli somigliava, solo dopo da allenatore si specchierà nel suo Barcellona, una squadra che doveva attaccare, attaccare e attaccare. Ancora una volta Jorge Valdano ne riassume i segreti (è facile indovinare poi chi li ha raffinati): «per il Barcellona la strada più breve non era quella maestra. La sua paziente elaborazione era basata sull’appoggio (c’era sempre qualcuno vicino pronto a mettersi in società col portatore di palla), la mobilità (si trattava di darla e proporsi), l’ampiezza (le due fasce erano permanentemente occupate), la velocità (il pallone non stava mai fermo tra i piedi dei giocatori) e la semplicità (nessuno complicava la manovra)». È stato un calciatore inquieto, prima ha smesso, poi è tornato, infine arretrando e giocando da libero ha vinto ancora – col Feyenoord – dando l’ultimo dispiacere al suo Ajax, che poi allenerà prima del Barcellona. Con la nazionale avrebbe dovuto vincere il mondiale del 1974, ma perse, contro la Germania, come perse contro Nereo Rocco – da calciatore – , e dopo – da allenatore – contro Fabio Capello in Coppa Campioni. È lo squilibrio della bellezza, la fragilità dell’estetica, la sicurezza che poi avranno solo i Beatles, e che sempre soccombono davanti alle tendenze calcistiche più concrete. Queste sconfitte lo umanizzano, fare l’elenco dei suoi trofei non serve, a lui come solo a James Bond, bastava dire: Sono Cruyff, Johan Cruyff. Il resto è negli occhi di tutti.
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