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I giovani (tifosi) d'oggi

Ultimo Aggiornamento: 19/03/2016 16:37
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Post: 652
16/03/2016 17:05
 
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Brunogiordano, 16/03/2016 12.27:

Complimenti a tutti per la capacità di analisi.
Mi permetto soltanto di aggiungere uno spunto di riflessione, già sviscerato in altre discussioni simili, legate al disaffezionamento da calcio.
Come si concilia tale fenomeno, che ora stiamo immaginando come "generazionale", con il confronto con gli altri paesi (gli stadi pieni di Germania, Gran Bretagna e Spagna)a noi vicini in termini di cultura calcistica?



Buona domanda.

Alla quale tento di rispondere a partire da un’istantanea a cavallo fra anni ‘80 e ‘90, quindi nel periodo di massimo splendore tecnico e di pubblico per il nostro calcio: il passaggio di Jürgen Kohler dal Colonia al Bayern, che scatenò un putiferio nella Bundesliga.
Intanto perché i bavaresi andavano a sottrarre il miglior giocatore a una squadra storicamente rivale e allora tecnicamente comparabile – l’1. FC Köln aveva disputato una finale di Coppa Uefa pochi anni prima -, rompendo una sorta di tacita lottizzazione che voleva un minimo di distribuzione dei migliori talenti fra i vari club per non far saltare gli equilibri.
In secondo luogo per la “scandalosa” cifra che, anche qui, sacrificava la sostenibilità complessiva e l’altrui possibilità di competere al loro strapotere economico.
Quanto era costato quello sconcertante trasferimento? DUE miliardi, avete letto bene.
Quale fu la reazione a tanta arroganza pecuniaria? "Potete iscrivervi al campionato italiano", testualmente.
E questo in un periodo nel quale, a proposito di tifo, la media degli spettatori nelle gare del massimo campionato teutonico si attestava sulle 18.000 unità.

Se passiamo dalla Germania all’Inghilterra, a una primazia incontrastata nelle Coppe – almeno fino all’Heysel – faceva da contraltare un movimento dai connotati anacronistici al limite del folclore.
Al di là delle sole due riserve in panchina – portiere escluso – e di simili vezzi, l’imperversare degli hooligans costituiva un retaggio di cui Oltremanica non riuscivano a liberarsi.
Mentre gli stadi, sia pure stracolmi di fascino, scivolavano giorno dopo giorno in una tragica inadeguatezza strutturale, in primis sul piano della sicurezza: un pensiero alle vittime di Bradford e Hillsborough basta per capire di cosa si stia parlando.

Tutto questo per sottolineare come la mancata “sincronizzazione” fra lo stato di salute – in generale e nel successo di pubblico – dei principali movimenti calcistici europei non sia affatto un’anomalia tipica del nostro presente.
Casomai si sono scambiati i ruoli, e si è forse approfondito il divario, ma senza creare nulla di inedito.
Forse perché, per venire alla tua formulazione, non si tratta di “Paesi […] a noi vicini in termini di cultura calcistica”.
Bensì di Paesi cui ci accomuna la passione radicata per questo sport, ma lontanissimi – se non antitetici – in termini di cultura calcistica.
E qui si arriva al dunque: il ribaltamento delle gerarchie dipende, a mio modo di vedere, dal cambiamento di paradigma gestionale e culturale.
Passando da regole del gioco che esaltavano le nostre qualità ad altre che esaltano quelle altrui, evidenziando in maniera chirurgica i nostri limiti.
Un po’ quanto accadde tra ‘400 e ‘600, quando un mercantilismo basato sul genio individuale o su un’organizzazione parafamilista lasciò il posto a strutture organizzative impersonali e assai più complesse: il che portò la Penisola dal ruolo di cuore pulsante dell’economia europea a una desolata marginalità.
Può sembrare un discorso off-topic, in quanto riferito alla componente tecnica e gestionale: ma la capacità di attrarre pubblico non è forse pertinente a quest’ultima, soprattutto nel modello attualmente in auge?
Pensiamo a come era cresciuta l’affluenza negli stadi italiani durante il dopoguerra: basandosi su un preesistente patrimonio di passione e di “legami invisibili”, era bastato ampliare gli impianti a prezzi di favore per riversare al loro interno masse festanti.
Con l’aggiunta, per dirla tutta, di un connotato di irresponsabilità e disorganizzazione.
In termini di sicurezza, se si pensa alla totale insensibilità all’argomento da parte di fornitori e utenti: l’importante era assistere alla partita, e pazienza se si rimaneva stipati in autentici pollai con tutti i rischi del caso.
In termini di priorità di spesa: il Vittorio Gassman padre di famiglia, che spende gli ultimi spiccioli per strillare “forza l**i” lasciandosi alle spalle moglie e figli allo sbando (I mostri, nell’episodio Che vitaccia!), è una caricatura estrema ma rappresentativa.
Finché si è trattato di pompare denaro nel sistema ad opera dei “ricchi scemi” e di monetizzare una passione spontanea, per la quale si metteva mano al portafogli più volentieri che altrove, il nostro calcio non ha avuto uguali: poi è cambiato tutto.
Sul piano gestionale, occorreva diversificare le entrate attingendo ad autofinanziamento, merchandising, capacità di attrarre investimenti esteri.
Sul piano commerciale, occorreva vendere uno spettacolo più generico – quindi a un pubblico non preesistente, ma che andava “conquistato” – con stadi comodi come teatri, sicurezza e logistica efficiente a incidere in maniera determinante sull’appetibilità dell’offerta.
Quanto possiamo essere competitivi in un simile scenario, e con quei criteri di selezione, lo sappiamo.
E lo sapeva anche la classe dirigente che ci ha sprofondati in quel pantano per interessi personali e corporativi.

In conclusione: credo che la morte del tifoso – perlomeno nell’accezione da Prima Repubblica – sia un fenomeno generalizzato a livello continentale.
Magari più evidente in Italia, perché si è caduti da un’altezza maggiore, ma sostanzialmente omogeneo.
Il problema è che altrove è nato al suo posto il cliente: mentre noi siamo ancora a metà del guado, fra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora.

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