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La partita più bella del mondo

Ultimo Aggiornamento: 07/05/2015 15:39
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Post: 2.725
06/05/2015 14:00
 
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Non è, ovviamente, l’articolo-più-bello-della-storia-del-mondo-sul-calcio: quello l'ha scritto Condò sul gol di Maradona all'Inghilterra e tra poco te lo incollo. Purtroppo anche lì si parla di tango, speriamo che Jack O'Malley non lo venga a sapere...

Cioè, a voler essere fiscali ha ovviamente ragione sulla vacanza pagata da Repubblica, e ha ragione che quasi tutto si poteva mettere insieme anche con Google (ma che cos'è, ormai, che non puoi mettere insieme con Google, che con Street View ti permette anche di farti una passeggiata per le città dell'Africa o dell'Australia stando seduto al pc di casa tua?). Però il suo mi pare un piglio invidioso, colpisce la (supposta) pretenziosità dell'articolo più che l'articolo stesso: dovrebbe essere speciale, e secondo lui speciale non è. Va bene. Ma secondo me resta comunque molto sopra la media di un sacco di merda che leggiamo ogni giorno, ché la velocità dell'informazione sempre più sta togliendo alla scrittura. A me piace com'è scritto, molto prima e molto di più di quello che racconta. Che poi - come dicevo all'inizio - è il pregio ma anche il limite di tutta l'opera di Baricco, o almeno di quella che mi è capitata per le mani.
Lo stesso tipo di commento tranciante da "Storie Mondiali" in poi viene riservato a Federico Buffa, che fino a un anno fa era noto solo agli appassionati di basket. Poi è diventato famoso col calcio, ha avuto successo perché indubbiamente funziona (in un modo un po' furbo non tanto diverso da quello di Baricco), ed ecco spuntare come i funghi quelli che fanno le pulci all'eccessiva enfasi, o al tale aneddoto troppo romanzato, o a quanto se la tira nei piani sequenza in cui cammina con le mani in tasca e gli occhiali da sole, o a quanto spende Sky per mandarlo in giro per il mondo. Che per carità, saranno pure obiezioni legittime, tutto e tutti sono criticabili. Però conta pure il pulpito da cui arriva la predica, che è facile dire sempre che fa tutto schifo, tipo Sacchi che stronca tutte le partite tranne i 6-1 di Guardiola. E comunque almeno Sacchi nella vita ha prodotto il grande Milan, voglio dire. Jack 'O Malley è per caso lo pseudonimo di Jorge Luis Borges?
Io, lo sai, sono un drogato di radio romaniste. Devi sapere tutte le mattine su Rete Sport interviene tale Alessandro Angeloni, anonimo mestierante del Messaggero. E tipo una volta su tre il suo intervento (di mezzora!) è basato sull'insofferenza che ha provato per quella telecronaca o per quella puntata del programma di Buffa. Il concetto è che gli stanno sul cazzo i fenomeni, insomma. Ma il problema è che lui è Alessandro Angeloni, e io non posso fare a meno di pensare che gli stanno sul cazzo i fenomeni essenzialmente perché lui è una pippa.

Ciò detto, ecco il Condò di cui sopra. Può darsi che l'abbiate già letto quando lo pubblicai su LazioNet o su BC.org, ora non mi ricordo. L'avevo già incollato, insomma. Ma lo rincollo volentieri.


IL PESO DEL DONO
 
Un paso atràs, un passo indietro. Poi un fulmineo otto disegnato in mezzo metro quadrato d'erba e lo scatto di partenza. Ci siete? Bene, adesso fermate quest'attimo, l'avvio del gol più bello nella storia del calcio, e pensate alla puntina di un vecchio grammofono HMV che una mano posa sul disco. Cercate di ricordare il rumore, il fruscìo disturbato di un solco irregolare; non si sente più quel rumore, negli hi-fi spaziali di oggi, ed è un peccato perché certe musiche le accompagnava bene. La puntina gira fino ad incontrare le prime incisioni del suono: l'attimo può sbloccarsi.
Diego Maradona ha appena ricevuto il pallone, nella sua metà campo, e con due figure del tango, paso atràs e otto, s'è liberato dei primi due inglesi. Uno si chiama Reid, ha già i capelli bianchi e quel giorno si sente improvvisamente vecchio, più vecchio di quando, un mattino allo specchio, notò che la sua testa non era più nera. L'altro si chiama Butcher, macellaio in inglese, e per qualche metro insegue Maradona. L'arte del calcio non è classista, un macellaio può capire un genio. Fermarlo è un'altra faccenda. Dal tango "Pensalo bien" di Juàn Josè Visiglio, Nola Lòpez e Julio Alberto: "Pensaci bene prima di fare questo passo / perché quando l'avrai fatto non potrai più tornare indietro". Su un campo di calcio, specie mondiale, il pensiero è sovente un lusso; manca il tempo. Pochi minuti prima, senza pensare, Maradona ha segnato l'1-0 colpendo il pallone con un pugno. Istinto. Truffaldino. Saltando davanti a Shilton, ha portato la mano all'altezza della fronte, in ritardo con l'impatto, e ha toccato la sfera con un gesto rapace. Non tutti se ne sono accorti; fra gli ignari, l'arbitro. Già caricati dal fresco sfregio delle isole Malvinas, riconquistate a prezzo di una guerra, gli inglesi in quel momento hanno odiato l'Argentina come si odia una volta sola nella vita, un odio assoluto e paralizzante. Hanno odiato in Maradona il trucco, opposto alle loro regole; la scorciatoia, contraria alla loro strada maestra; la slealtà, opposta al loro fair play. Hanno odiato quel vento dal Sud che soffiava contro la loro fortezza, incrinandone le torri merlate. Avesse avuto il tempo di pensare, forse in Diego avrebbe prevalso la metà chiara, e lo sberleffo sarebbe stato risparmiato. Ma mentre il pallone rotola in porta oltre il braccio alzato di Shilton, e un fugace sguardo di Maradona all'arbitro rivela la sua svista, la metà oscura trionfa. "La mano de Dios", avrebbe detto poi. Quasi un manifesto politico, dal meridione del mondo.
Maradona, dunque, non può più tornare indietro. Può solo avanzare verso un secondo gol che in qualche modo indennizzi del primo. Paso atràs e otto hanno lasciato di stucco Reid, Butcher azzarda l'illusione di un inseguimento, la figura successiva di quel tango è la corrida, una corsa precipitata tenendo la partner incollata a sé. La partner è la palla. Nel corso della sua vita Maradona ha tradito tutti e da tutti è stato tradito: uomini, donne, progetti, ricordi. Lei, soltanto lei, pur beffeggiata dal suo artista, che troppe volte le preferiva altre droghe, non ha mai avuto cuore di abbandonarlo. Da qualsiasi abisso Diego riemergesse, la ritrovava lì, docile, in attesa delle sue carezze. Poteva avere la pancia, poteva essere fatto, era sufficiente un tocco per ricreare l'eterna magia. Quando nel '94 Maradona corre verso la telecamera per urlare al mondo "sono tornato", la palla è sullo sfondo, dentro alla porta della Grecia. Pare sorridere.
Corrida. Svelta, lieve, decisa. Una finta ed è saltato anche Sansom, che è come se prendesse il testimone da Butcher perché quello si ferma esausto, e lui ne rileva la missione: inseguirlo. Hanno inseguito in molti Maradona, e non tutti erano avversari. L'hanno inseguito a lungo i pochi amici sinceri, per salvarlo da se stesso implorando la metà chiara, ma vedendo più spesso affacciarsi la metà oscura. A metà degli Anni 70 la sua famiglia, inurbata a Buenos Aires dalla provincia settentrionale di Corrientes, confine col Paraguay, sopravvive in un barrio periferico, Fiorito, dove le strade non sono asfaltate. Alla festa del suo matrimonio, 1989, le molte signore presenti trovano in ogni bomboniera un anello prezioso. L'incalcolabile promozione sociale ed economica non giustifica niente. Però spiega tanto. Maradona da grande conserva certe lealtà del bambino e la sua indole generosa resta visibile: per gli amici può fare molto, nessun compagno di squadra, nemmeno a posteriori, ne ha mai parlato male, e quando l'Unicef gli chiede di fare l'ambasciatore dell'infanzia povera gli occhi gli brillano. Maradona da grande, però, si lascia scegliere anche dalla camorra, come testimonial; gli occhi continuano a brillargli, ma per un altro motivo.
Due inglesi, Stevens e Fenwick, aspettano sulla linea dell'area di rigore. Deve parer loro la bianca scogliera di Dover, e quell'argentino in avvicinamento rapido un missile diretto su Londra. L'attesa dura un lungo momento, poi Stevens alza i tacchi e arretra, pensando di conservarsi così un'estrema chance, e lasciando il solo Fenwick a preparare l'impatto. Gancho: nel tango è la deviazione laterale ruotando su se stesso, in velocità, oltre il piede avversario proteso nel sogno di uno sgambetto. Maradona ha imparato la lezione dell'82, quella impartitagli da Claudio Gentile: se rimane fermo, un grande terzino ha i mezzi, leciti e non, per impedirgli di accendersi. Ma se riesce a lanciarsi, è troppo tardi per chiunque. Lezione di vita, anche. Bloccato nel suo letto da ogni tipo di eccesso, sente vagamente, al di là della porta chiusa, il mormorio dei compagni più amici, saliti a Posillipo per strapparlo al suo non-essere: per un allenamento, una trasferta, una partita. Vorrebbe alzarsi, andarsene con loro, ma non ce la fa; non riesce ad accendersi. Dopo, soltanto dopo, s'inventa le maniere più rocambolesche per raggiungerli, come quel volo privato a Mosca per non mancare in Coppa Campioni: ma il gancho, nella vita, gli riesce ogni volta più a stento.
Penetrando l'area di rigore in diagonale, Maradona, sempre braccato da Sansom, vede franargli davanti Shilton in uscita, mentre Stevens s'è allargato oltre il portiere per sostituirglisi come ultimo uomo. Se questa fosse una storia romana, ricorderebbe gli Orazi e i Curiazi, il superstite che ne uccide tre affrontandoli uno per volta. Invece è una storia argentina, ritmata dal tango, e il fruscio della puntina diventa un sussurro regolare nell'accompagnare gli ultimi metri della grande corsa. Figlio delle influenze più diverse, dalla habanera cubana alle danze tambureggianti degli schiavi africani, alle canzonette di immigrati italiani e francesi, il tango è l'immagine di un Paese scaturito da mille culture emigrate lì da luoghi lontani. Lo scrittore Ernesto Sabato descrive così le radici del suo popolo: "Gli italiani discendono dai latini, i francesi dai galli, gli argentini dalle navi". Nel DNA di Maradona c'è l'orgoglio di una patria costruita: "Hijos de puta", sibila tra i denti la sera della finale mondiale '90, quando lo stadio Olimpico, in odio a lui, fischia vergognosamente l'inno argentino. C'è l'amarezza di chi non crede a un destino salvifico: "Dimenticatemi", grida alle telecamere dopo l'arresto a Buenos Aires per una storia di cocaina. C'è la rabbia di chi si sente Sud del mondo, e dal Mondiale con la sua nazionale agli scudetti di Napoli dedica il suo immenso talento al riscatto di tutti i meridioni. E poi nel DNA di Maradona c'è l'istinto del fuggitivo. Dai galeotti che colonizzarono la Terra del Fuoco a Butch Cassidy che sparì in Patagonia per scappare alla giustizia americana, dagli Eichmann e Priebke a tanta gente nei guai ancora adesso, l'Argentina è un posto pieno di fuggiaschi, romantici alcuni, criminali altri. E' l'istinto del fuggitivo a guidare Diego negli ultimi metri che lo dividono dal gol più bello nella storia del calcio: un altro passo di tango, la media luna, gli viene in soccorso per dribblare Shilton senza farsi raggiungere da Sansom. Pone il piede di taglio davanti al pallone, leggermente arcuato come una mezzaluna, per toglierlo dalla portata del portiere. Poi, calcolando in un baleno la velocità del recupero di Stevens, colpisce la sfera con la precisione di un biliardo, e quella passa tra l'estrema scarpetta inglese che si allunga in scivolata e la base del palo. Gol. Il Gol. Non ce n'era mai stato uno così; chissà se e quando ne rivedremo uno paragonabile.
Il passo che chiude questa storia, e accompagna un Maradona trionfante verso la bandierina del corner e, qualche giorno dopo, verso il titolo mondiale 1986, è quello della salida. L'uscita. L'ha provato tante volte, Diego, nei suoi periodi neri, e gli è sempre riuscito male, condannato a non poter replicare, fuori, l'abilità che dentro il campo gli veniva naturale. Ci sono due modi di guardare a Diego Maradona. Il primo, che non riesce ad appartenerci, è il giudizio di condanna per un uomo che ha avuto in sorte un dono inestimabile, il talento per entusiasmare la gente, e l'ha sperperato con una vita sciocca e amorale. Il secondo, che sentiamo nostro, non sottovaluta i suoi infiniti errori, ma li filtra alla luce di una gratitudine per le emozioni che ha suscitato e di una solidarietà umana per chi ha avuto troppo per le sue spalle, non è riuscito a reggerlo, e ne è stato schiantato. In omaggio a questo secondo modo di guardare Maradona, prima che la puntina raschi il fondo del disco, lo immaginiamo vecchio e in pace con se stesso, seduto a un tavolo del Caffè Tortoni, mentre ascolta "Mi Buenos Aires querido" dalla voce di Carlos Gardel. E quando l'usignolo d'Argentina canta "no habrà mas penas ni olvido", mai più pene nè oblio, sorride come De Niro nell'ultima scena di "C'era una volta in America". Finalmente sereno.
 
(da "La Gazzetta dello Sport - Magazine", 1998)
[Modificato da Mark Lenders (ML) 06/05/2015 14:04]

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